L’OMBRA DI CARAVAGGIO
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Napoli, 1609. Michelangelo Merisi, noto a tutti come Caravaggio, trova rifugio presso la famiglia Colonna in attesa della grazia papale che gli permetterebbe di sfuggire alla decapitazione come punizione esemplare per aver ucciso l’amico-rivale Ranuccio. Il pittore e scultore sostiene di essersi semplicemente difeso da un agguato, poiché durante la sua vita “da avanzo di galera”, fatta di grandi bevute e di rapporti sessuali con “donne di malaffare” e ragazzi, le risse sono state all’ordine del giorno. Del resto la sua “vita spericolata” è riflessa nei suoi dipinti, in cui una prostituta può diventare la Vergine Maria e un senzatetto San Pietro capovolto sulla croce. Per questo la Chiesa gli mette alle calcagna una sorta di inquisitore che ha il compito di indagare sul suo passato e di mettersi in contatto con le persone a lui più vicine, quelle che malgrado tutto lo proteggono: in primis la marchesa Costanza Colonna e il nipote del Papa, Scipione Borghese.
Michele Placido utilizza l’escamotage dell’indagine per ripercorrere gli episodi salienti della vita di Michelangelo Merisi e per mostrare il modo in cui gli incontri fatti dall’artista siano riflessi nella sua opera.
C’è molto della personalità di Placido, che nel film si ritaglia il ruolo di un cardinale libertino, in questo Caravaggio: la carnalità trasgressiva, la passionalità focosa, il temperamento sanguigno, persino il gusto della provocazione. Per contro l’indagatore, interpretato da Louis Garrel, è algido, distaccato e fanaticamente religioso, una vera e propria ombra per l’artista che invece agisce sempre alla luce del sole, mettendoci la faccia, costi quel che costi.
Di luce e di ombra è fatto il film di Placido, scritto insieme a Sandro Petraglia e a Fidel Signorile, e la fotografia di Michele D’Attanasio evoca quel contrasto fra oscurità diffusa e illuminazione mirata che è caratteristica saliente della pittura del Caravaggio: una fotografia magnifica e coraggiosa che trae il meglio dall’ottimo lavoro di scenografia e costumi (di Tonino Zera e Carlo Poggioli), creando una sintesi pittorica fra l’opera caravaggesca e l’estetica cinematografica.
La regia di Placido invece calca eccessivamente la mano su ogni scena e reitera all’infinito il messaggio sulla libertà dell’artista che ha il dovere di raccontare la verità senza adeguarsi alle pressioni esterne, in questo caso la finzione di matrice religiosa imposta dalla Chiesa e un’Accademia manierata e conservatrice. È facile vedere in questo una presa di posizione personale di Placido, spesso a disagio nel rispettare le convenzioni e le restrizioni del cinema italiano.
Il tentativo di mutuare il linguaggio del tempo con quello contemporaneo ottiene spesso effetti stranianti: frasi come “Dov’è che vai?” o “Ma non dobbiamo scopà?” e “Aò” (detti da un lombardo com’era Caravaggio) risultano inappropriate nel contesto secentesco. Anche gli incontri fra Merisi e alcune figure del suo tempo, soprattutto Giordano Bruno, appaiono didascalici, così come molti discorsi sull’arte e la morale, come quello che vede Caravaggio e l’investigatore a diretto confronto. E Riccardo Scamarcio sembra a disagio nell’interpretare una figura descritta in maniera agiografica in quanto le vengono attribuiti sentimenti e intenti invariabilmente nobili malgrado la condotta rissosa e libertina.