FIORE MIO
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Cognetti, insieme a Laki, il cane con cui si fanno reciproca compagnia, sale verso le quote più alte del Monte Rosa spinto dal desiderio di comprendere per quale ragione non arrivi più acqua nella casa in cui abita. Lungo il percorso incontra persone che conosce da tempo che raccontano quale senso abbia per loro il vivere in montagna.
Cognetti in questa prima totalmente personale ci mostra senza retorica una montagna che vive e tiene in vita.
“Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna. Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia”. Così inizia “Le otto montagne”, il romanzo che ha ampliato in maniera esponenziale la notorietà di Paolo Cognetti. In Fiore mio il suo è un passo che deve tenere conto della presenza di Laki e che si propone allo spettatore come un’occasione di incontri.
C’è un’immagine che torna nel film ed è quella di una tazza che viene riempita d’acqua fino all’orlo. Non ci viene detto il perché ma non ha importanza. Ognuno può fornire la propria interpretazione così come fanno, a proposito del rapporto con la montagna, le persone che Cognetti incontra nel suo percorso a cui consente di parlare senza mai sovrapporsi con la propria visione. Quella ce l’ha già proposta nella sua opera letteraria. Qui prevale la disposizione all’ascolto che, non a caso, apre e chiude il film consentendo ai suoni della Natura di occupare tutto il campo uditivo.
Quella Natura che una credenza cittadina idealizza ritenendo che il Rosa si chiami così perché al tramonto le sue cime si tingono di quel colore mentre ci viene detto da subito che il termine deriva da un termine in lingua locale che significa ghiaccio. Quella Natura che Marta, un’amica che gestisce un rifugio vegano e che pratica yoga, vede come pronta a reagire, con i suoi tempi, allo scempio che l’umanità ne sta facendo.