I DANNATI
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Inverno, 1862. Da qualche parte nelle terre dell’Ovest, un manipolo di soldati nordisti deve perlustrare il territorio e resistere due settimane prima dell’arrivo della ‘cavalleria’. In attesa di un nemico invisibile organizzano il campo e le guardie. Giovani volontari, che hanno sparato soltanto ai conigli, o soldati di lungo corso, che lucidano Colt e fucili, giocano a carte e si scambiano pensieri sulla guerra civile che dilania l’America. Come solo orizzonte un crinale dietro il quale riparare ed oltre il quale avanzare e interrogare il senso del loro arruolamento. Sono soli sulla terra, trafitti soltanto da un colpo di carabina, ed è subito neve.
I nordisti, i cavalli, le giubbe blu, le montagne innevate, i carri, l’accampamento… sono tutti archetipi del western eppure nel film di Roberto Minervini sembra di scoprirli per la prima volta.
È una questione di sguardo, di tempo, di suoni, soprattutto di silenzio, è una questione di attesa (soltanto Buzzati ha fatto meglio), è una questione di soldati perduti, malgrado la fede, il padre e la Patria.
Discretamente e ostinatamente, l’autore italiano traslocato in America prosegue la sua strada di cinema, un sentiero accidentato ai margini di Hollywood e contro le regole dello spettacolo dominante. Si fa domande Minervini e le risposte sono sempre magnifiche. Questa volta è un film di guerra come una preghiera, fondato sull’esperienza della durata, l’attenzione minuziosa alle persone e ai luoghi, la forza tellurica dei quadri, gli spazi vergini, l’assordante laconismo degli attori.